Saluto al carcere la notte di capodanno a bari

nella notte di capodanno il saluto di compagne e compagni presso il carcere di Bari  per ribadire che nessuno è solo nelle galere come nei CIE.

 

Il 19 dicembre una nuova protesta ha visto protagonisti i migranti e le migranti del CARA di Bari i quali chiedevano a gran voce di modificare il nuovo meccanismo di distribuzione dei pasti. Tutto ciò è accaduto a pochi mesi dalla “lunga marcia” degli eritrei che a giugno manifestarono rivendicando il loro diritto a lasciare l’Italia e contestando il programma di relocation che li aveva costretti a Bari.
In questo clima di tensione che anche dopo la chiusura del CIE non si è placato, arrivano, come benzina sul fuoco, condanne pesanti nei confronti di 31 persone “colpevoli” di aver partecipato alla rivolta dinanzi al “Centro di (non) accoglienza” il primo agosto 2011. Il Tribunale di Bari ha condannato a pene comprese fra i 5 anni e 8 mesi di reclusione e i 3 anni e 10 mesi 31 immigrati, che con altre centinaia scesero in strada per manifestare la propria frustrazione e denunciare le condizioni inumane in cui si trovavano; fortunatamente la maggior parte dei condannati è irreperibile e ne siamo felici. Queste condanne comunque si aggiungono alle altre 14, comminate nel febbraio 2014, assieme alle deportazione nei paesi d’origine dei presunti ‘capi’ della rivolta. Non stupisce che la repressione colpisca chi alzi la testa, chi difende la propria dignità. Siamo consapevoli che per le leggi, e chi deve applicarle, non è importante che quelle centinaia di migranti vengano da paesi dilaniati da guerre di cui gli stati Nato, tra cui l’Italia, sono i veri responsabili; non importa che quei\quelle migranti rischino la vita durante una traversata per terra e mare pagata migliaia di dollari ad associazioni mafiose; non importa che quei\quelle migranti abbiano perso la propria famiglia, il proprio lavoro e si trovino in un paese che, negando il permesso di soggiorno o il diritto d’asilo , tiene migliaia di persone nell’impossibilità di cercare un impiego, di ricongiungersi ad amici o ai cari rimasti, di vivere liberamente insomma, gettandoli\e così in un’apatica ed estenuante inedia. Non stupisce neanche l’approccio tendenzioso e superficiale con il quale i giornali e i media hanno riportato la notizia, volto esclusivamente ad una mera cronaca dell’accaduto o a legittimare l’azione repressiva della magistratura dedita a placare ogni frizione sociale a colpi di anni di carcere. Non stupisce l’assoluta acriticità dei giornalisti nostrani, che non indagano sulle cause e sui presupposti che portano alla protesta, mai. La realtà è che l’accoglienza di stato è solo carcerazione, violenza, deportazione, negazione dell’identità. Chi giunge su queste coste senza le carte ritenute giuste si trova rinchiuso in una gabbia amministrativa fatta di burocrazia infinita e in una struttura “logistica” fatta di CIE, HOT SPOT, SPRAR, CARA, trattati alla stregua di merci. E questo sono, per chi tutto ciò lo gestisce. Il business per politici, mafiosi e fascisti è redditizio. Così come lo è per tutti gli altri operatori, che a vari livelli, permettono che la macchina dei lager per stranieri funzioni. Il tutto nel contesto di una strategia politica che punta a fare dello straniero il capro espiatorio per eccellenza, il nemico da combattere, la causa dei problemi, alimentando così la guerra tra poveri.
Noi sappiamo chi sono i\le colpevoli: sono le multinazionali e gli stati nazionali a loro asserviti, sono i\le banchieri\e e le loro istituzioni FMI e BCE, sono l’imperialismo di NATO, EU, Russia, Turchia ecc. che da un lato creano il problema, la guerra, utilizzando lo spauracchio del terrorismo o la lotta al dittatore autoctono di turno, e dall’altro si propone come soluzione allo stesso problema, invadendo manu militari per “esportare la democrazia”. Siamo convinti\e che la condizione dei\delle migranti è la medesima dei\delle disoccupati\e, dei\delle precari\e, di chi non ha una casa, di chi vede distrutto il proprio territorio dalle grandi opere; di tutti\e gli\le sfruttati\e senza distinzione di sesso, razza, religione, colore della pelle o nazionalità, perché la fonte è la stessa: il capitalismo fondato sul dominio.
Siamo complici con i\le migranti in lotta,

Siamo solidali con chi è stato\a colpito\a dalla repressione perché si è ribellato\a;

Siamo complici e solidali con chiunque lotti contro un sistema mondiale che vuole lo sfruttatore dominare gli sfruttati.
NO AL RAZZISMO! NO AI CIE\CARA!
NO AI CONFINI! SI ALLA LIBERTA’ DI MOVIMENTO!
SOLIDARIETA’CON I\LE MIGRANTI COLPITE DALLA REPRESSIONE!
COMPLICITA’CON I\LE MIGRANTI IN LOTTA!

Riguardo i fatti di Parma – Laboratorio GEEERL

Riportiamo il comunicato delle compagne baresi del laboratorio permanente GEEERL in merito a quanto accaduto a Parma nel 2010.

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Sei anni fa a Parma c’è stato uno stupro. Una violenza che assume contorni ancora più tragici perché avvenuta ai danni di una ragazza incosciente e perché l’accaduto si è svolto in uno spazio “di movimento” allora gestito dalla RAF (Rete Antifascista di Parma).
Abbiamo letto e riletto i molteplici articoli, comunicati e post trovati in rete. Fra molti scritti di solidarietà alla ragazza che ha subito la violenza, c’è stato anche chi ha voluto evidenziare il fatto che la denuncia di questi episodi venga strumentalizzata da polizia, fascisti e giornali, suggerendo forse fra le righe che i panni sporchi si lavano in casa propria e chi ha voluto mettere in dubbio l’accaduto, accusando la ragazza di “vittimizzazione” e ambiguità. Un’atteggiamento che rispetta proprio la dinamica familiare patriarcale, che preferisce da sempre che lo “sporco” rimanga sotto il tappeto.
A chi dice: “ma tu il video lo hai visto?” noi rispondiamo che no, non lo abbiamo visto e non abbiamo bisogno di vederlo! Porre questo tipo di dubbi potrebbe sembrare legittimo, ma nei fatti diventa un modo di distogliere l’attenzione dal fatto vero: CLAUDIA HA SUBITO UNA VIOLENZA. Colpevolizzarla per aver parlato con le forze dell’ordine, è un’ulteriore violenza nei confronti di una persona già sufficientemente segnata da quanto accaduto e in una posizione difficile e priva di scelta, che per molti anni è stata in silenzio.

Detto questo non ci interessa in alcun modo conoscere il punto di vista degli stupratori e dei loro difensori. Non ci interessa trovare delle giustificazioni perchè UNO STUPRO E’ UNO STUPRO e non fa nessuna differenza se ciò è avvenuto in uno spazio occupato, in uno spazio fascista, in un Arci o in una chiesa perchè UNO STUPRO E’ UNO STUPRO e come tale, per noi chi stupra è e resta un fascista, maschilista, machista e pezzo di merda. Una ragazza che ha subito violenza non deve essere isolata, derisa, lasciata con i suoi demoni e addirittura cacciata dai centri sociali. Una ragazza che ha subito violenza in uno spazio che dovrebbe essere antifascista è stata in silenzio troppo tempo, è stata chiamata prima “ragazza fumogeno” e poi “infame”. A dimostrare la violenza non solo di chi stupra, ma quella di chi passa dall’essere indifferente all’aggressione, dall’incredulità al “è vero ha subito una violenza, ma..” che ci suona tanto simile a quel “non sono razzista,ma..” che scivola sulla bocca di ogni squallido italiano medio che si rifiuta di comprendere la realtà e sentire ancora sentimenti di solidarietà.
Quindi rifiutiamo la posizione di chi cerca di nascondere o giustificare l’accaduto, per noi UNO STUPRO E’ UNO STUPRO. E questo episodio non è altro che una dolorosissima dimostrazione di come non esistano spazi immuni dallo schifo sessista e machista, che non basta chiamarsi compagni o avere uno spazio occupato per essere realmente antisessisti. Viviamo in una società patriarcale e fortemente machista che inevitabilmente trasborda all’interno delle relazioni che ci troviamo a vivere nelle nostre città e sì, anche negli spazi che dovrebbero esserne “liberati”. Proprio per questo il 27 Novembre si è tenuto un workshop fra gli altri che aveva come tema proprio il sessismo all’interno dei movimenti. Non ammetterlo sarebbe un’ipocrisia e l’ennesima violenza a tutte quelle compagne che ogni giorno combattono per rendere gli spazi e la discussione politica scevri da un ordine del discorso maschilista e autoritario. Un lavoro che è neccessario e al quale ognun* di noi deve sentirsi chiamat*, perché non è mai abbastanza.

Per quanto ci riguarda i soggetti che hanno compiuto lo stupro non avranno alcuna agibilità politica nè a Bari e nè in qualsiasi altro spazio occupato antifascista, nella prospettiva che Claudia possa avere giustizia non grazie a un’aula di tribunale, ma grazie alla solidarietà dei compagn*.
“Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti”

GEEERL Gruppo Erranti Erotiche Eretiche Laboratorio

Intervento di Soccorso Rosso Internazionale / Battaglione Internazionale di Liberazione

di seguito l’intervento di due compagni di Soccorso Rosso Internazionale sulla situazione in Rojava e sull’esperienza Battaglione Internazionale di Liberazione che raggruppa combattenti comunisti, anarchici e antifascisti, accorsi a difendere il Rojava con lo stesso spirito delle Brigate Internazionali nella Spagna del 1936.

https://www.youtube.com/watch?v=ncYbERlWCZA

Con questo post cogliamo l’occasione per ringraziare tutte le compagne e i compagni che hanno sostenuto con il loro contributo fattivo la buona riuscita dell’iniziativa e tutti gli artisti che si sono esibiti sul palco dell’Ex-Caserma Liberata. Con questa iniziativa abbiamo contribuito alla campagna internazionale di Soccorso Rosso Internazionale di Basel (rhi-sri) finalizzata all’acquisto di materiale medico per il Battaglione Internazionale in Rojava.

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Una iniziativa a sostegno della Campagna di sostegno al Battaglione Internazionale di Liberazione del Rojava

Una iniziativa per sostenere una compagna internazionale promossa da Soccorso Rosso Internazionale di Basel (rhi-sri) e finalizzata all’acquisto di materiale medico per il Battaglione Internazionale in Rojava;
Aiutiamo il Battaglione Internazionale di Liberazione che raggruppa combattenti comunisti, anarchici e antifascisti, accorsi a difendere il Rojava con lo stesso spirito delle Brigate Internazionali nella Spagna del 1936 sostenendoli non solo dal punto di vista politico ma anche da quello materiale.

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Una campagna di solidarietà internazionale finalizzata all’acquisto di speciali bendaggi emostatici (dal costo di 40 dollari l’uno) necessari per tutti coloro che rimangono feriti in combattimento.
Una due giorni di discussione sulla rivoluzione dal punto di vista delle donne e sull’esperienza del confederalismo democratico in Rojava in collaborazione con Ex-Caserma Liberata e con compagne e compagni solidali con il popolo curdo.

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6 DICEMBRE -c\o Officina degli Esordi, Ore 18:00
Presentazione del libro “Per amore” con l’autrice Silvia Todeschini
7 DICEMBRE – c\o Ex-Caserma Liberata, Ore 18:00
proiezione del documentario “Sara. tutta la mia vita è stata una lotta”,
di Dersim Zeravan, sulla vita della heval Sakine Cansız co-fondatrice del movimento di liberazione curdo.
Ore 20:00 – Dibattito sulla rivoluzione confederale del Rojava.
Ore 22:00 – Concerto BENEFIT per la campagna di SOCCORSO ROSSO INTERNAZIONALE (rhi-sri)
con
– LIMBOCHICKS E I PRODUTTORI D’ODIO D’OLIVA, poesia rurale e punk-rock casereccio (Salento)
– TUKURU’ Hip hop/ Afrobeat (Bari)
e in chiusura un djset Afrobeats a cura di Mimmo Superbass

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Contributo consigliato 3€ – Evento Fb

per maggiori informazioni potete ascoltare questo contributo da radio black out o visitare il sito di Soccorso Rosso Internazionale sulla Campagna di sostegno al Battaglione Internazionale di Liberazione del Rojava

Contro gli abusi di polizia – Comunicato in solidarietà agli studenti barlettani

Comunicato in solidarietà agli studenti barlettani.

IL 17 novembre scorso, due studenti del collettivo Cortocircuito di Barletta hanno subito un fermo di polizia durato qualche ora e durante il quale sono stati schedati. Il loro reato era quello di essere in corteo, come centinaia di altri studenti, con il loro striscione ed i loro slogan. Il loro allontanamento è stato chiesto da membri del sindacato studentesco UDS, in base a motivazioni di squallida egemonia di piazza, nei quali non entreremo e vi rimandiamo al comunicato del collettivo Cortocircuito [link]. Servite su un piatto d’argento, le forze dell’ordine si sono immediatamente prodigate in un’identificazione di gruppo, culminata con il fermo di due studenti (di 17 e 18 anni) che tentavano di rivendicare il loro diritto a restare nella piazza.

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La polizia non è nuova a spingersi oltre il proprio seminato. Chiaramente, agevolata da una delazione di questo tipo, si è presa volentieri il compito di stabilire chi in quel momento avesse il diritto di stare in piazza per risolvere il classicissimo “problema di ordine pubblico” che era venuto a generarsi.
Ma quale ordine pubblico?
Senza il bisogno di un’analisi troppo elaborata è facile leggere, in questo spiacevole episodio, un chiaro scopo intimidatorio. Facciamo fatica a credere che la polizia italiana si interessi delle controversie tra due diverse organizzazioni studentesche, vista la libertà di espressione che, con troppa facilità, è stata concessa all’estrema destra a Barletta, come in altre piazze d’Italia. Più facile è, immaginare che questa sia stata una ghiotta occasione per le FdO per mettere a tacere giovani voci scomode e soggettività non ammaestrate attraverso atti intimidatori. Atti intimidatori che si sono trasformati in un vero e proprio abuso di potere, in quanto non è chiara la motivazione in base alla quale la polizia si è sentita autorizzata a portare due studenti in caserma per la fotosegnalazione e per prelevargli le impronte digitali, neanche si trattasse di criminali. Purtroppo questi abusi di potere sono ormai la prassi da parte delle FdO, che approfittandosi del clima di sospetto generato con maestria dagli organi di informazione, dell’aridità della politica di rappresentanza che non conosce solidarietà ma solo sete di potere, è entrata senza proteste nelle scuole, nelle università e nelle piazze. Da parte nostra non ci stancheremo mai di denunciarli, perché chi sa e volta la testa, chi sa e tace, è complice e permette tutto questo.
Ci vogliono rassegnati ma non fanno altro che alimentare le nostre convinzioni.
Nessuno rimarrà isolato.

Comunicato delle Officine Tarantine su denunce e repressione

Rilanciamo il comunicato delle Officine Tarantine su denunce e repressione ed esprimiamo a tutte le compagne e i compagni vicinanza e correità.

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Questo è il resoconto delle ultime denunce a carico del collettivo Officine Tarantine , in seguito alle mobilitazioni messe in campo nell’ultimo anno.
Ci teniamo a rendere pubblico quanto sta accadendo negli ultimi tempi, dopo che per mesi l’azione di delegittimazione effettuata nei confronti di esponenti ed attivisti sembrava essersi interrotta.
Sono giunte nelle abitazioni di alcuni nostri compagni decreti penali di condanna, e citazioni a giudizio, emanati dalla magistratura di Taranto su indicazione degli agenti PS Digos, riguardanti le ultime mobilitazioni messe in campo.
La prima riguarda l’insediamento del Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano e della sua Giunta nella nostra città ,nel giorno in cui la piazza esterna al Palazzo della Prefettura era presidiata da istanze ed organizzazioni diverse (associazioni, sindacati e movimenti), si emanano condanne preventive al pagamento di ingenti multe (in sostituzione della pena detentiva) per alcuni compagni che, insieme alle tante organizzazioni, si resero portavoce di alcune istanze territoriali.
L’accusa è quella di manifestazione non autorizzata, un paradosso procedurale che sa di strategia repressiva ben premeditata: da un lato una piazza esterna presieduta da varie realtà sindacali, politiche ed associative, dall’altro una azione repressiva soltanto per alcuni , guarda caso “i soli” tra i pochi i cittadini che dentro l’assise regionale hanno provato a riportare il dramma sociale ed ambientale della città di Taranto nella realtà dei suoi fatti.
Qualche giorno fa, invece, è accaduto il fatto più clamoroso , sempre a carico di un appartenente al collettivo “Officine Tarantine”: arriva una citazione a giudizio da parte del condannato a 10 mesi di reclusione con pena sospesa Don Marco Gerardo.
Il parroco della chiesa del Carmine cita a giudizio un nostro esponente, imputandolo di avergli recato offese pubblicamente nel ripetere alcune frasi lette e rilette su vari quotidiani (presenti anche nel processo AMBIENTE SVENDUTO).
A quanto pare quelle parole hanno fatto infuriare il condannato della curia Tarantina, che dopo essersi messo al servizio della ragnatela che Archinà tesseva, cerca, citando un appartenente alla società civile a giudizio , di tirarsene fuori moralmente.
Resta il fatto che con questa citazione il parroco chiede un risarcimento danni.
Nonostante queste procedure mirate, atte a tentare di distruggere percorsi di lotta autonomi che ad oggi contano più di 50 persone denunciate con diversi processi in atto, ci sono diverse riflessioni da fare .
La prima considerazione riguarda la curia tarantina , che ancora nonostante una condanna a 10 mesi di reclusione nei confronti di Don Marco Gerardo, non ha preso nessun tipo di provvedimento nei confronti del parroco della chiesa del Carmine di Taranto, anzi a maggior ragione lo stesso, con questa azione diffamatoria (a nostro avviso) conferma la sua poca fede nella giustizia.
Con questo coivolgimento processuale lontano dalle logiche di qualsiasi pastore ,il parroco del Carmine è un altro esempio lampante di come alcuni membri della comunità ecclesiastica tarantina professano nonostante le loro azioni siano molto lontane dalla fede stessa.
Altra considerazione riguarda la macchina della repressione messa in atto da magistratura e polizia negli ultimi anni.
Le istituzioni continuano imperterrite a reprimere attraverso denunce e decreti penali di condanna la voglia di riscatto e le idee che molti ragazzi di questa dannata città esprimono attraverso percorsi autonomi e spontanei.
Percorsi giovani che con coraggio, dal basso, rimarcano l’appartenenza ad un territorio sfruttato e depredato, lottando costantemente per la libertà di poter scegliere un futuro diverso dall’emigrazione, dalle grandi industrie, e dallo sfruttamento.
Ci troviamo dopo diversi anni TUTTI/E CONDANNATI a giudizio , per aver espresso le nostre necessità , per aver alzato con fierezza la testa, contrastando chi dall’alto cala ogni giorno scelte infamanti sulle nostre vite, costringendoci a vivere in questo ”stato “ , imponendo a tutti noi, alla comunità tarantina, di chinare la testa costantemente e ad accettare una situazione sociale e ambientale disastrosa alla quale siamo sottoposti da decenni.
Queste denunce non fermeranno il nostro cammino, vivere qui significa anche non avere paura del presente, del futuro e della repressione,
TARANTO LIBERA.
OFFICINE TARANTINE.

Non mi uccise la morte – Il Caso Cucchi

Sabato 5 novembre Nonsolo Marange e Osservatorio sulla Repressione vi invitano a partecipare ad un incontro / dibattito per mantenere viva l’attenzione sul caso Cucchi.
con:
Ilaria Cucchi – sorella di Stefano
Fabio Anselmo – avvocato della famiglia Cucchi e Aldovrandi
Italo di Sabato – Osservatorio sulla Repressione
Gennaro Tosto – Nonsolo Marange

A partire dalle ore 18 presso l’Ex-Caserma Liberata ripercorreremo la vicenda giudiziaria Cucchi.
Un’odissea giudiziaria che va avanti da oltre sette anni: fra reticenze, sentenze contraddittorie, perizie e controperizie sul corpo di Stefano la famiglia Cucchi continua la sua battaglia con l’obiettivo di fare luce intorno alle cause che hanno portato alla morte di Stefano e individuare finalmente i responsabili.

Discuteremo di repressione per le strade e di tortura nelle carceri, dei dispositivi legislativi che sono arma contro chiunque osi mettersi contro lo stato per affermare bisogni e diritti. Per non dimenticare i volti di quei ragazzi morti mentre erano nelle mani dello stato, il cono d’ombra in cui sono state avvolte le morti di Stefano, Carlo, Federico, Aldo, Michele, Carmine, Giuseppe, Riccardo, Dino, Francesco, Massimiliano, Abderramhan, Vincenzo, Vittorio, Vito, Ettore, Dario, David …..

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Da quel 22 ottobre del 2009 quando Stefano Cucchi fu dichiarato morto presso all’ospedale Pertini di Roma ad oggi sono passati sette anni. Un primo processo ha visto in 3 gradi di giudizio prima assolvere, quindi condannare e in ultimo grado assolvere nuovamente i 5 medici che hanno avuto in cura Stefano Cucchi nell’ospedale Pertini di Roma perché non è possibile dimostrare nella pratica se il loro comportamento abbia potuto influire sulla morte di Stefano. Nel 2015 nasce una inchiesta bis che porta all’iscrizione nel registro degli indagati i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco (tutti per lesioni personali aggravate e abuso d’autorità), Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini (per falsa testimonianza, e il solo Nicolardi anche di false informazioni al pm) e nel dicembre dello stesso anno la Procura di Roma chiede, nell’ambito dell’incidente probatorio davanti al gip, una nuova perizia sul pestaggio subito da Cucchi. Il 4 ottobre del 2016 i periti nominati dal gip consegnano un perizia di 250 nella quale da un lato riconoscono per la prima volta “la recente frattura traumatica di S4 associata a lesione delle radici posteriori del nervo sacrale” ma dall’altro si avventurano in labirinto di ipotesi affermate e negate insieme, di contorte ricostruzioni che portano alla morte “di epilessia” anche se l’ipotesi stessa è «priva di riscontri oggettivi».

E il 15 ottobre del 2009, giovedì ore 21:00, Stefano Cucchi saluta i genitori e esce dalla casa in cui è cresciuto in via Ciro D’Urbino, a Roma: ha appuntamento col suo amico Emanuele. Il progetto è di far fare una passeggiata a Dafne, il cane setter che ha preso al canile e a cui è affezionatissimo. Alle 22:30 Stefano e Emanuele fermano le auto davanti alla chiesa di San Policarpo, ma non fanno neanche in tempo a scendere che due carabinieri in divisa bussano sul finestrino delle rispettive macchine. “Documenti”. Da quel momento la vita di Stefano entra in un cono d’ombra di stato per uscirne solo cadavere 8 giorni dopo. Stefano viene recluso, pestato selvaggiamente, torturato e quindi abbandonato nel sistema carcerario tra burocrazia e medici reticenti, gli viene negata la possibilità di incontrare un legale di fiducia e la possibilità di incontrare i propri genitori che per giorni hanno disperatamente cercato di vederlo.
I genitori di Carlo vedranno il loro figlio morto con in dosso gli stessi vestiti che aveva quando era stato arrestato e quello che i loro occhi hanno dovuto vedere sono, per noi, immagini che conosciamo bene grazie al coraggio della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi che supportata dall’avvocato Fabio Anselmo ha deciso tempo addietro di pubblicare le foto di Stefano in obitorio.

Se il carcere è il luogo della disumanizzazione, della spersonalizzazione individuale e affettiva, della violenza e della privazione, la vicenda giudiziaria che Ilaria Cucchi e la famiglia hanno dovuto affrontare è stato un girone infernale fatto di negazione sistematica, aggressione e sciacallaggio mediatico atto a negare le responsabilità degli uomini dello stato nella morte di Stefano.

Quelle mura che urlano libertà

Ieri, il nostro primo presidio sotto le mura del carcere di Bari, per parlare della vicenda di Carlo Saturno, giovane ventitreenne morto in quel carcere il 30 Marzo del 2011; di seguito il contributo di un compagno
Quelle mura che urlano libertà.
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Arriviamo come sempre in ritardo, il presidio è iniziato da poco e troviamo un bel gruppo di persone dietro lo striscione “CARLO SATURNO VIVE, siete voi ad essere i morti” … i compagni e le compagne in questi giorni hanno lavorato bene all’interno dei quartieri. Intorno il solito insensato dispiegamento di forze, sulle mura di cinta del carcere c’è un numero mai visto di guardie carcerarie che si muovono nervosamente a gruppetti. Dal microfono la storia di Carlo Saturno, uno dei tanti, troppi casi di detenuti che non escono vivi dal carcere, di “morti di stato” sui quali cala il silenzio della sottrazione sistemica che l’ordine carcerario compie sui corpi di chi fra quelle mura perde la vita.
Ad un certo punto qualcuno dall’altra parte delle mura prova a farsi sentire.
Urla, vestiti sventolati dalle grate verso l’esterno
Io e un compagno ci guardiamo dicendoci la stessa cosa: “E’ una scena che mette i brividi”; Le guardie penitenziarie si agitano e puntano un faro nella zona da cui proviene il “saluto”, un vero e proprio avvertimento mentre il presidio all’improvviso tace per alcuni secondi prima di esplodere tra urla, grida, fischi e slogan. Ci siamo ripresi per qualche secondo quelle cose fondamentali della vita che l’ipermediazione costante ci nega ovvero lo scambio e l’empatia.
Il carcere è quel luogo in cui non ti è riconosciuto nemmeno lo status di essere umano. Un banale contatto con l’esterno rappresenta un affronto troppo grosso per chi considera i prigionieri non più esseri umani ma numeri il cui destino è quello di essere irrimediabilmente estromessi dalla società. Non ho mai creduto nella funzione “rieducativa” del carcere. Nessuna riabilitazione è possibile in un sistema che si occupa solo di detenere, reprimere, isolare, talvolta persino uccidere. Le carceri italiane detengono soprattutto le classi più povere, coloro che vivono esistenze al limite perché nei quartieri dove sono cresciuti non c’erano alternative.
In quel momento il pensiero va agli amici del quartiere, alle loro scelte, alle soluzioni cercate per riscattarsi da una condizione di miseria, ai motivi che li hanno portati a trascorrere i loro anni migliori fra quelle squallide mura, in cui sei poco più che una voce dispersa nel bilancio dello stato, ai loro sguardi spenti tutte le volte che ci ritroviamo al solito bar, al sorriso amaro sui loro visi quando, come a volersi giustificare, mi dicono “forse uno mi chiama per lavorare la settimana prossima”. Perché il carcere ti fa anche questo. Intanto il presidio prosegue e una signora strappa di mano il microfono dalle mani di un compagno e urla “Assassini, vogliamo giustizia!” è la zia di Carlo che ha saputo del presidio dalle locandine affisse in tutto il quartiere ed ora è li davanti a noi con il microfono in mano. Passano i minuti tra grida, slogan e musica popolare contemporanea, la zia di Carlo prima di andare grida, “ragazzi qualunque cosa facciate io sono con voi, chiamatemi”, parole che unite a quel brivido dato da quelle urla, provenienti dall’altra parte del muro restituiscono il senso vero dei percorsi di lotta fatti di partecipazione e solidarietà.

Presidio sotto le mura del carcere di Bari

Giovedi 20 Ottobre a partire dalle ore 18:00
Presidio sotto le mura del carcere di Bari (Viale Papa Giovanni XXIII)
NON SARA’ LA MORTE A FERMARE LA TUA VOCE
Verità e giustizia per Carlo Saturno
NONSOLO MARANGE – Cassa di resistenza, supporto legale e mutuo soccorso

 

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In carcere si tortura, in carcere si muore – la storia di Carlo Saturno

La fine violenta di Carlo Saturno, giovane ventitreenne morto nel carcere di Bari il 30 marzo del 2011, non è solo una storia di una morte e violenza, ma anche di coraggio e volontà.

E’ il 30 Marzo del 2011; Carlo viene rinchiuso in una cella di contenimento del carcere di Bari, dove poche ore dopo, viene ritrovato in condizioni disperate con un lenzuolo legato al collo. Carlo Saturno viene trasferito al Policlinico di Bari, dove 8 giorni più tardi verrà dichiarato morto.

Carlo entra per la prima volta in carcere, nel 2003 all’età di 14 anni nell’Istituto penale per minorenni di Lecce, dove si trova a subire ogni tipo di abuso da parte delle guardie penitenziarie, sino ai limiti della tortura. Carlo guidato da un’incrollabile volontà nel difendere la sua integrità fisica e mentale dal sistema carcerario, decide di denunciare insieme ad altri detenuti ed operatori del carcere le violenze subite. È l’unico però ad avere il coraggio di testimoniare nel processo contro 9 agenti penitenziari avviatosi nel 2007. Da qual momento la vita di Carlo diventa un inferno fatto di vessazioni, minacce, isolamento, a prescindere dalle carceri nelle quali viene trasferito: Novara, Taranto e infine Bari.

Il 30 marzo del 2011, dopo l’ennesimo scontro fisico e verbale con un agente di polizia penitenziaria del carcere di Bari, alla presenza di altri agenti e detenuti, Carlo viene rinchiuso nella cella di contenimento proprio per essersi rifiutato di piegarsi all’ennesima minaccia di trasferimento, poche ore dopo verrà trovato impiccato.

A distanza di 5 anni dalla sua morte violenta e nonostante le pressanti richieste del GIP, “di individuare gli agenti di polizia penitenziaria responsabili del pestaggio, i medici che ebbero in cura il ragazzo, gli psicologi e tutti coloro che permisero che restasse solo nella cella in cui fu trovato cadavere”, per la terza volta la procura di Bari ha chiesto l’archiviazione del caso con l’evidente volontà di non voler perseguire i responsabili della morte di Carlo. Per il magistrato inquirente non ci sono approfondimenti da fare, nè colpevoli da cercare, così come avviene per la maggior parte dei detenuti che muoiono in per “arresto cardiocircolatorio” o “suicidio”.

Il carcere è il luogo della disumanizzazione, della spersonalizzazione individuale e affettiva, della violenza e della privazione. Il carcere di Bari, se mai l’abbia avuto, ha di certo perso la sua funzione di “rieducazione” rimanendo solo un luogo di detenzione fatiscente e vetusto, sovraffollato, senza luoghi di socialità adeguati, con spazi aperti molto limitati e dove la stragrande maggioranza dei detenuti è in attesa di giudizio (267 su 348).

Noi vogliamo che la memoria di Carlo come di tutti coloro che hanno perso la vita nelle carceri rimanga viva, noi vogliamo verità e giustizia per Carlo Saturno e lo grideremo a gran voce sotto le mura del carcere di Bari, giovedi 20 Ottobre a partire dalle ore 18:00 (Viale Papa Giovanni XXIII) dove il nome di Carlo è solo uno dei tanti nomi di coloro che hanno perso la vita in quel luogo.

Villa Roth non si processa

Rilanciamo il comunicato delle compagne e dei compagni dell’esperienza abitativa di Villa Roth sotto processo

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Sono passati quasi tre anni dalla mattina in cui l’esperienza abitativa, sociale e politica di Villa Roth è stata interrotta bruscamente dal suo sequestro. La conseguenza di un’azione legale intrapresa dalla Provincia di Bari che, appena prima di essere inglobata nella Città metropolitana, ha lasciato come ultimo gesto amministrativo lo sgombero di un’esperienza che senza dubbio aveva contribuito a migliorare non solo la vita dei precari, dei migranti, degli studenti, dei senza fissa dimora che vivevano lì, ma di tutti coloro che avevano trovato in quei luogo uno spazio comune, uno spazio di condivisione reale, una nuova famiglia.

Oggi 16 persone si trovano ad essere processate per aver preso parte a quei percorsi. Non vogliamo entrare in questa sede nel merito delle indagini e di quanto poco credibile possa essere una lista di imputati fatta un po’ a caso e che coinvolge persone che tutt’ora sono senza fissa dimora e cercano sostegno nelle strutture comunali. Siamo sempre stati consapevoli che non sarebbero state certo la questura o il tribunale i luoghi in cui l’esperienza sociale e politica di Villa Roth sarebbe stata compresa. Al contrario siamo consapevoli che il nostro vero reato non è quello per cui 16 persone sono imputate, quanto quello di aver fatto di necessità abitative e desideri una questione politica, che ha portato a produrre migliaia di pagine di indagini e a un processo che valesse come esempio puntivo per chi osasse ancora fare della propria povertà una questione politica.

Tuttavia in questa storia non manca anche dell’assurdo: cerchiamo di ripercorrerne velocemente i passi.
La Provincia di Bari, dopo aver lasciato 20 anni Villa Roth in abbandono, si rende conto che non poteva più impegnarsi nell’ottima gestione dimostrata fino a quel punto, a causa degli “abusivi” che l’hanno ristrutturata, abitata e aperta alla città: quindi li denunciano e aspettano che la giustizia faccia il suo corso.
La Provincia infatti con grande spirito di iniziativa si era decisa nel 2001 a farla diventare “Museo della Moda e del Tessuto Antico”, un progetto architettonico in grande stile che prevedeva un enorme piramide di vetro e acciaio applicata sul terrazzo, diciamo una specie di Louvre di San Pasquale. Il progetto, inspiegabilmente, è rimasto sulla carta e Villa Roth fra i rifiuti per ancora molti anni.

Il 15 Gennaio 2014, guardacaso il giorno dopo lo sgombero, la Provincia tira fuori dal cilindro un bando che “affidi l’immobile a chiunque, per fini di interesse sociale, possa essere nelle condizioni di renderlo agibile e utilizzarlo”. Come se questo non fosse già stato fatto dagli occupanti che l’avevano restituita alla città. Del resto, in due anni di attività sociali e culturali aperte e riconosciute dalla città nessuna amministrazione, provinciale o comunale che fosse, aveva mostrato alcun interesse né per la villa in sé né per l’esperienza che all’interno di quella struttura si stava producendo. Fiumi di parole e d’inchiostro si sono versati all’indomani di uno sgombero che preludeva una campagna elettorale da cui ci siamo tenuti felicemente alla larga. Il bando era ovviamente finto, con buona pace di chi pensava di ricavarci qualcosa, e si è sciolto insieme alla Provincia di Bari, trasformatasi in Città Metropolitana. Il suo ultimo gesto amministrativo è stato quello di murare col cemento porte e finestre della Villa. Nessuno ne sentirà la mancanza.

La storia continua. La Villa sarebbe rimasta vuota ancora a lungo, se nel frattempo il Comune di Bari non si fosse trovato con un’altra gatta da pelare. A causa della denuncia di Cecilia Strada, in Corso Vittorio Emanuele non si riesce più a continuare a ignorare le condizioni disumane in cui vivevano da oltre un anno i migranti accampati nella tendopoli dell’Ex Set. Quindi si decide di buttare giù i muri eretti dalla Provincia per ospitare nelle stanze della Villa almeno le famiglie con bambini e le persone con problemi di salute che si trovavano nell’Ex Set. E invece, sorpresa! La Villa non è vuota: dentro ci vivono dei senza fissa dimora privi di migliori alternative. Il Comune non affronta la faccenda e dentro la Villa viene costruito un muro che separi la zona dei “bianchi” da quella dei “neri”. Inutile dire quanto sia triste questa storia. Quanto sia ridicolo il fatto che il Comune di Bari abbia destinato la Villa per lo stesso scopo abitativo per cui oggi 16 persone vengono processate. Quanto sia vergognoso che nelle mani del “pubblico” la Villa sia destinata agli stessi scopi, ma totalmente priva di una gestione che si occupi dell’integrazione di queste persone e del miglioramento sociale e politico delle loro vite.

11 ottobre 2016. Affronteremo questo processo a testa alta, forti di un’esperienza che per due anni non solo si è preso cura di uno spazio, ma l’ha aperto alla città rendendolo un centro culturale e sociale riconosciuto, amato, attraversato. Un progetto culturale che ha ricevuto il sostegno di firme importanti che andavano dall’ex rettore Petrocelli a personaggi della cultura e dello spettacolo di fama nazionale, come Elio Germano e Franco “Bifo” Berardi, ma anche di migliaia di cittadine e cittadini comuni.
Quello che vi chiediamo è di essere con noi il pomeriggio di sabato 1° ottobre, come gesto complice e solidale, per condividere i nostri pensieri e percorsi futuri. Perché si parte e si torna insieme.