Quelle mura che urlano libertà

Ieri, il nostro primo presidio sotto le mura del carcere di Bari, per parlare della vicenda di Carlo Saturno, giovane ventitreenne morto in quel carcere il 30 Marzo del 2011; di seguito il contributo di un compagno
Quelle mura che urlano libertà.
carlo-saturno-vive
Arriviamo come sempre in ritardo, il presidio è iniziato da poco e troviamo un bel gruppo di persone dietro lo striscione “CARLO SATURNO VIVE, siete voi ad essere i morti” … i compagni e le compagne in questi giorni hanno lavorato bene all’interno dei quartieri. Intorno il solito insensato dispiegamento di forze, sulle mura di cinta del carcere c’è un numero mai visto di guardie carcerarie che si muovono nervosamente a gruppetti. Dal microfono la storia di Carlo Saturno, uno dei tanti, troppi casi di detenuti che non escono vivi dal carcere, di “morti di stato” sui quali cala il silenzio della sottrazione sistemica che l’ordine carcerario compie sui corpi di chi fra quelle mura perde la vita.
Ad un certo punto qualcuno dall’altra parte delle mura prova a farsi sentire.
Urla, vestiti sventolati dalle grate verso l’esterno
Io e un compagno ci guardiamo dicendoci la stessa cosa: “E’ una scena che mette i brividi”; Le guardie penitenziarie si agitano e puntano un faro nella zona da cui proviene il “saluto”, un vero e proprio avvertimento mentre il presidio all’improvviso tace per alcuni secondi prima di esplodere tra urla, grida, fischi e slogan. Ci siamo ripresi per qualche secondo quelle cose fondamentali della vita che l’ipermediazione costante ci nega ovvero lo scambio e l’empatia.
Il carcere è quel luogo in cui non ti è riconosciuto nemmeno lo status di essere umano. Un banale contatto con l’esterno rappresenta un affronto troppo grosso per chi considera i prigionieri non più esseri umani ma numeri il cui destino è quello di essere irrimediabilmente estromessi dalla società. Non ho mai creduto nella funzione “rieducativa” del carcere. Nessuna riabilitazione è possibile in un sistema che si occupa solo di detenere, reprimere, isolare, talvolta persino uccidere. Le carceri italiane detengono soprattutto le classi più povere, coloro che vivono esistenze al limite perché nei quartieri dove sono cresciuti non c’erano alternative.
In quel momento il pensiero va agli amici del quartiere, alle loro scelte, alle soluzioni cercate per riscattarsi da una condizione di miseria, ai motivi che li hanno portati a trascorrere i loro anni migliori fra quelle squallide mura, in cui sei poco più che una voce dispersa nel bilancio dello stato, ai loro sguardi spenti tutte le volte che ci ritroviamo al solito bar, al sorriso amaro sui loro visi quando, come a volersi giustificare, mi dicono “forse uno mi chiama per lavorare la settimana prossima”. Perché il carcere ti fa anche questo. Intanto il presidio prosegue e una signora strappa di mano il microfono dalle mani di un compagno e urla “Assassini, vogliamo giustizia!” è la zia di Carlo che ha saputo del presidio dalle locandine affisse in tutto il quartiere ed ora è li davanti a noi con il microfono in mano. Passano i minuti tra grida, slogan e musica popolare contemporanea, la zia di Carlo prima di andare grida, “ragazzi qualunque cosa facciate io sono con voi, chiamatemi”, parole che unite a quel brivido dato da quelle urla, provenienti dall’altra parte del muro restituiscono il senso vero dei percorsi di lotta fatti di partecipazione e solidarietà.

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